In house providing: natura e limiti a seguito delle recenti modifiche normative

SeA no name miniCons. Stato, sez. III, 07.05.2015 n. 2291
(sentenza integrale)

“Passando al merito, può ricordarsi che l’art. 4, cit. (“Riduzione di spese, messa in liquidazione e privatizzazione di società pubbliche”), ha dettato una serie di disposizioni volte a limitare e razionalizzare il ricorso da parte delle pubbliche amministrazioni all’attività di società controllate.
Il comma 7, al dichiarato fine di “evitare distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori nel territorio nazionale”, ha disposto che, a decorrere dal 1° gennaio 2014, le pubbliche amministrazioni, “nel rispetto dell’articolo 2 , comma 1 del citato decreto acquisiscono sul mercato i beni e servizi strumentali alla propria attività mediante le procedure concorrenziali previste dal citato decreto legislativo”.
Il successivo comma 8, ha disposto che, sempre a decorrere da detta data, “l’affidamento diretto può avvenire solo a favore di società a capitale interamente pubblico, nel rispetto dei requisiti richiesti dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria per la gestione in house”.
10. Il Collegio osserva che il tenore del comma 7 sembra univoco nell’individuare le procedure concorrenziali come modalità necessaria di acquisizione dei beni e servizi strumentali.
La sentenza appellata ha ritenuto che il comma 8 avesse un contenuto derogatorio del comma 7, nel senso di stabilire la possibilità di ricorrere all’affidamento diretto, purché nel rispetto dei requisiti dell’in house providing stabiliti dal diritto comunitario, e che quindi (sebbene dichiarato incostituzionale con sentenza n. 229/2012) esprimesse un precetto comunque esistente nell’ordinamento comunitario e tuttora applicabile.
Tale interpretazione non convince.
Quanto all’esistenza di un precetto comunitario, occorre precisare che l’in house providing, così come costruito dalla giurisprudenza comunitaria, sembra rappresentare, prima che un modello di organizzazione dell’amministrazione, un’eccezione alle regole generali del diritto comunitario, le quali richiedono che l’affidamento degli appalti pubblici avvenga mediante la gara. Infatti, l’affidamento diretto del servizio – anche laddove non si traduca nella creazione di posizioni di vantaggio economico che l’impresa in house possa sfruttare nel mercato, presentandosi come “particolarmente” competitiva, con conseguente alterazione della par condicio – rileva comunque ai fini della tutela della concorrenza in quanto sottrae al libero mercato quote di contratti pubblici, nei confronti dei quali le imprese ordinarie vengono escluse da ogni possibile accesso (cfr. Cons. Stato, A.P. n. 1/2008).
Se dunque l’affidamento diretto ha carattere spiccatamente derogatorio, l’esistenza di una sua disciplina normativa a livello comunitario (oggi contenuta nell’art. 12 della direttiva 24/2014/UE, da recepire entro il 18 aprile 2016, anche se nelle disposizioni in questione è stata ravvisata una compiutezza tale da farle ritenere “self-executing”, avendo indubbiamente “contenuto incondizionato e preciso” – cfr. Cons. Stato, II, n. 298/2015; Cass. civ. SS.UU., n. 13676/2014) consente tale forma di affidamento, ma non obbliga i legislatori nazionali a disciplinarla, né impedisce loro di limitarla o escluderla in determinati ambiti.
La circostanza che un affidamento in house non contrasti con le direttive comunitarie non vuol dire che sia contraria all’ordinamento UE una norma nazionale che limiti ulteriormente il ricorso all’affidamento diretto.
Con ciò, si torna alla preclusione degli affidamenti diretti stabilita dall’art. 4, comma 7, in questione, con scelta dichiaratamente pro-concorrenziale che non può certamente ritenersi irragionevole.
11. Peraltro, anche la considerazione del comma 8 non può condurre ad una diversa interpretazione della portata applicativa del comma 7.
Occorre considerare che i primi commi dell’art. 4 prevedevano – nei confronti delle società controllate da pubbliche amministrazioni che nel 2011 avessero conseguito un fatturato da prestazioni di servizi a favore di p.a. superiore al 90 per cento dell’intero fatturato – lo scioglimento della società o l’alienazione della partecipazione pubblica entro il 31 dicembre 2013 (comma 1); sanzionandone l’inadempimento con il divieto di disporre nuovi affidamenti o rinnovare quelli in essere (comma 2).
Le eccezioni all’applicazione di tale (comma 3) riguardavano: le “società che svolgono servizi di interesse generale, anche aventi rilevanza economica”; le “società che svolgono prevalentemente compiti di centrali di committenza”; “le società di cui all’articolo 23-quinquies, commi 7 e 8” dello stesso d.l. (si tratta della SOGEI e della CONSIP); le “società finanziarie partecipate dalle regioni”; “quelle che gestiscono banche dati strategiche per il conseguimento di obiettivi economico-finanziari” individuate con d.P.C.M; ed infine i casi in cui “per le peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto, anche territoriale, di riferimento non sia possibile per l’amministrazione pubblica controllante un efficace e utile ricorso al mercato”, dovendosi in tali casi procedere ad un’analisi del mercato e predisporre una relazione sulla quale avrebbe espresso un parere vincolante l’AGCM.
Dunque, la volontà del legislatore era quella di limitare il ricorso alle società pubbliche, tra l’altro escludendolo nel settore dell’acquisizione di beni e servizi strumentali, che non veniva tipologicamente considerato tra le eccezioni.
In tale contesto, al comma 8 sembra ragionevole attribuire il significato di stabilire, nei confronti delle società alle quali, in applicazione dei commi 1, 2 e 3, era consentito di continuare ad operare, le condizioni da rispettare per potere ricevere ulteriori affidamenti diretti da parte delle amministrazioni controllanti a decorrere dal 1° gennaio 2014; in altri termini, che l’affidamento diretto fosse consentito solo nei casi in cui lo stesso art. 4 ammetteva la costituzione o il mantenimento di società in house.
Del resto, la Corte Costituzionale, con la citata sentenza n. 229/2013, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni dei commi 1 e 2 – nonché, in quanto ad essi “strettamente collegati”, dei commi 3, secondo periodo, 3-sexies ed 8 – dell’art. 4, ritenendo che incidessero sulla materia dell’organizzazione e funzionamento della Regione, affidata dall’art. 117, quarto comma, Cost., alla competenza legislativa regionale residuale delle Regioni ad autonomia ordinaria ed alla competenza legislativa regionale primaria delle Regioni ad autonomia speciale dai rispettivi statuti, tenuto conto che esse inibiscono in radice una delle possibili declinazioni dell’autonomia organizzativa regionale.
12. Per contro, il comma 7 è uscito indenne dal giudizio di costituzionalità, e la Corte ha rilevato che la disposizione obbedisce alla finalità, dichiarata dallo stesso legislatore, “di evitare distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori sul territorio nazionale” e va quindi ricondotta alla materia della “tutela della concorrenza” rientrante nella potestà legislativa esclusiva dello Sato.
Il comma 7 è l’unica disposizione vigente, tra quelle dell’art. 4 volte a limitare la possibilità di ricorso all’utilizzazione delle società controllate ed aventi portata generale (non settoriale), posto che l’art. 1, comma 562, della legge 147/2013, a valle della pronuncia della Corte, ha abrogato i commi 1, 2, 3, 3-sexies, 9, 10 e 11 dell’art. 4.
E si tratta di disposizione avente una propria ratio, complementare a quelle sulla cessazione delle società controllate e suscettibile di essere applicata a prescindere dall’avvenuta caducazione di queste ultime”.

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