E’ possibile remunerare l’Appaltatore mediante cessione di un bene immobile anzichè mediante pagamento in denaro? Secondo quali modalità? Sulla questione è intervenuta una recente pronuncia in ordine a fattispecie nella quale è stata dedotta la violazione dell’art. 53 comma 6 del D.Lgs. n. 163/2006. Secondo parte ricorrente, tale disposizione non ammetterebbe la possibilità di cedere all’appaltatore, in corrispettivo del contratto, un bene immobile di valore superiore ai lavori da eseguire, poiché darebbe luogo ad una illegittima obbligazione di pagamento nei confronti della stazione appaltante non assistita da procedura autonoma.
La censura è stata ritenuta infondata dal Giudice Amministrativo, il quale ha osservato che il citato art. 53 comma 6, per quanto non contempli espressamente tale possibilità, neppure la vieta, limitandosi a consentire la sostituzione “totale” del corrispettivo contrattuale attraverso il trasferimento di beni.
Non emergono inoltre ragioni logiche per escludere un eventuale conguaglio in danaro anche in favore dell’amministrazione, quando tale conguaglio è comunque previsto in favore dell’appaltatore nel caso di beni con valore inferiore al corrispettivo di contratto.
Del resto il successivo comma 8 lett. a) prevede la possibilità di offerta disgiunta, che contempla sia il prezzo offerto per l’acquisto dell’immobile che il prezzo richiesto per l’esecuzione del contratto (la cui differenza impone ovviamente un conguaglio).
Per principio generale in materia di contabilità pubblica, le alienazioni vengono aggiudicate al prezzo più alto (poiché comportano un’entrata per le casse pubbliche), al contrario di lavori, servizi e forniture (che comportano invece una spesa).
In conclusione, può ricorrere la fattispecie in cui, per effetto del rialzo sul prezzo base di acquisto e del ribasso sul prezzo base di esecuzione dei lavori, emerga un differenziale in favore della stazione appaltante che, per obiettive ragioni di efficienza, efficacia e celerità dell’azione amministrativa, non può determinare l’abbandono del procedimento solo perché si creerebbe un’obbligazione pecuniaria a carico dell’appaltatore.Il citato art. 58 del D.L. n. 112/2008, peraltro, non presuppone la totale inservibilità del bene, poiché il giudizio di non strumentalità, all’esercizio delle proprie funzioni, può riguardare anche beni utilizzabili ma non adeguati e sufficienti per coprire i fabbisogni di sviluppo inseriti nei programmi dell’amministrazione.
In sostanza, attraverso la procedura in esame, l’ente pubblico decide di far cessare la destinazione a pubblico servizio di beni del proprio patrimonio e il connesso rapporto di strumentalità di quei beni rispetto ai propri fini istituzionali.
Se poi convenga ristrutturare e ampliare l’immobile esistente oppure dismetterlo per costruirne uno nuovo in altro sito, ciò presuppone valutazioni non solo tecnico-economiche, ma anche discrezionali ad ampio raggio che attengono al merito dell’azione amministrativa e, come tali, sottratte al sindacato del Giudice amministrativo se non per evidenti e incontestabili profili di illogicità, travisamento, contraddittorietà e sviamento di potere.
In particolare va osservato:
– che non sussiste palese contraddizione rispetto alla precedente volontà di conservare la struttura esistente;
– che l’inserimento della struttura nel piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari, lungi dal potersi considerare irreversibile, non impedisce l’utilizzo della stessa fino alla sua materiale dismissione secondo i programmi e i tempi previsti dall’amministrazione;
– che non sussiste palese sviamento di potere per la valorizzazione del bene attraverso variante urbanistica, poiché tale possibilità è espressamente prevista (addirittura con procedura semplificata) dal citato art. 58, volto proprio alla valorizzazione del patrimonio immobiliare anche in caso di sua cessione a terzi. Del resto, se così non fosse, i beni dismessi potrebbero restare infruttuosamente a carico dell’amministrazione (cioè della collettività) perché economicamente e funzionalmente inappetibili;
– che non sussiste palese erroneità e travisamento dei fatti nella scelta di destinare l’immobile (e l’area di pertinenza) allo svolgimento di attività commerciale-distributiva (media struttura di vendita), trattandosi di destinazione compatibile con la vocazione, anche residenziale, della zona circostante. Eventuali problematiche di carattere ambientale, viabilistico, acustico e idraulico (come denunciano i ricorrenti anche con riferimento all’ubicazione del nuovo asilo) dovranno essere affrontate nelle sedi progettuali opportune che non riguardano questa fase del procedimento (con la progettazione ancora a livello preliminare e una variante urbanistica in itinere, la cui approvazione costituisce condizione per l’aggiudicazione definitiva dell’appalto);
– che non sussistono vizi palesi di eccesso di potere, derivanti dalla stima del bene da cedere, perché ritenuta infondatamente eccessiva. Detta stima costituisce mero atto endoprocedimentale per determinare il valore da porre a base di gara e, come tale, non idonea per provocare immediati effetti lesivi. Il valore effettivo del bene dato in corrispettivo, nell’ambito della complessiva operazione economico-finanziaria, sarà determinato solo dal mercato secondo le regole della domanda e dell’offerta. (TAR Ancona, 05.03.2016 n. 148)