Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 16.10.2020 n. 22
La clausola del disciplinare di gara che subordini l’avvalimento dell’attestazione SOA alla produzione, in sede di gara, dell’attestazione SOA anche della stessa impresa ausiliata si pone in contrasto con gli artt. 84 e 89, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016 ed è pertanto nulla ai sensi dell’art. 83, comma 8, ultimo periodo, del medesimo decreto legislativo (1).
La nullità ex art. 83, comma 8, d.lgs. n. 50 del 2016 della clausola del disciplinare di gara che subordini l’avvalimento dell’attestazione SOA alla produzione, in sede di gara, dell’attestazione SOA anche della stessa impresa ausiliata configura un’ipotesi di nullità parziale limitata alla clausola, da considerare non apposta, che non si estende all’intero provvedimento, il quale conserva natura autoritativa (2).
Al cospetto della nullità della clausola escludente contra legem del bando di gara non sussiste l’onere per l’impresa di proporre alcun ricorso perchè tale clausola – in quanto inefficace e improduttiva di effetti – si deve intendere come ‘non apposta’, a tutti gli effetti di legge, salvo impugnare nei termini ordinari gli atti successivi che facciano applicazione (anche) della clausola nulla contenuta nell’atto precedente (3).
La questione era stata rimessa da Cons. St., sez. V, 17 marzo 2020, n. 1920
(1) Il Codice dei contratti pubblici, in linea con la giurisprudenza del Consiglio di Stato divenuta infine prevalente, nel vigore del d.lgs. n. 163 del 2006 (v., ex plurimis, Cons. St., sez. V, 30 novembre 2015, n. 5396; id. 26 maggio 2017, n. 2627), dopo un primo indirizzo che negava l’ammissibilità dell’avvalimento sul presupposto del carattere intrinsecamente e insostituibilmente soggettivo e quasi “personalistico” della certificazione di qualità, ammette ora l’avvalimento delle certificazioni di qualità e, in particolare, delle attestazioni SOA, poiché riconosce che anche la certificazione di qualità costituisce un requisito speciale di natura tecnico-organizzativa, come tale suscettibile di avvalimento, in quanto il contenuto dell’attestazione concerne il sistema gestionale dell’azienda e l’efficacia del suo processo operativo.
Conferma di tale possibilità, coerente con la ratio dell’avvalimento, quale delineata dalla Adunanza plenaria già con la sentenza n. 23 del 4 novembre 2016 in riferimento al d.lgs. n. 163 del 2006, intesa a favorire il principio della massima partecipazione alle procedure di gara, si è avuta non solo nella legge delega per l’emanazione dell’attuale codice (legge n. 11 del 2016), che, nell’art. 1, comma 1, lett. zz), ha previsto che «il contratto di avvalimento indichi nel dettaglio le risorse e i mezzi prestati, con particolare riguardo ai casi in cui l’oggetto di avvalimento sia costituito da certificazioni di qualità o certificati attestanti il possesso di adeguata organizzazione imprenditoriale ai fini della partecipazione alla gara», ma nella stessa formulazione dell’art. 89, comma 1, del d. lgs. n. 50 del 2016, come modificato dal d.lgs. n. 56 del 2017, nella parte in cui si prevede che l’operatore economico possa soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico e professionale, di cui all’art. 83, comma 1, lett. b) e c), d.lgs. n. 50 del 2016, necessari per partecipare ad una procedura di gara – con esclusione dei requisiti di cui all’art. 80 – avvalendosi delle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi.
Per i soggetti esecutori a qualsiasi titolo di lavori pubblici di importo pari o superiore a 150.000 euro, il possesso di detti requisiti di qualificazione avviene esclusivamente, ai sensi dell’art. 84, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016, mediante attestazione da parte delle società organismi di attestazione (SOA) autorizzate dall’ANAC.
Tuttavia, per evitare che l’avvalimento dell’attestazione SOA, ammissibile in via di principio per il favor partecipationis che permea l’istituto dell’avvalimento, divenga in concreto un mezzo per eludere il rigoroso sistema di qualificazione nel settore dei lavori pubblici, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha più volte ribadito che l’avvalimento dell’attestazione SOA è consentito ad una duplice condizione:
a) che oggetto della messa a disposizione sia l’intero setting di elementi e requisiti che hanno consentito all’impresa ausiliaria di ottenere il rilascio dell’attestazione SOA;
b) che il contratto di avvalimento dia conto, in modo puntuale, del complesso dei requisiti oggetto di avvalimento, senza impiegare formule generiche o di mero stile.
È stato così affermato che, in materia di gare pubbliche, quando oggetto dell’avvalimento sia un’attestazione SOA di cui la concorrente sia priva, occorre, ai fini dell’idoneità del contratto, che l’ausiliaria metta a disposizione dell’ausiliata l’intera organizzazione aziendale, comprensiva di tutti i fattori della produzione e di tutte le risorse, che, complessivamente considerata, le ha consentito di acquisire l’attestazione da mettere a disposizione (Cons. St., sez. V, 16 maggio 2017, n. 2316; id. 12 maggio 2017, n. 2226), sicché è onere del concorrente dimostrare che l’impresa ausiliaria non si impegna semplicemente a prestare il requisito soggettivo richiesto e, nel caso di specie, l’attestazione SOA, quale mero requisito astratto e valore cartolare, ma assume la specifica obbligazione di mettere a disposizione dell’impresa ausiliata, in relazione all’esecuzione dell’appalto, le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo, in tutte le parti che giustificano l’attribuzione del requisito di qualità.
Tali condizioni, del resto, sono coerenti con la ricostruzione dogmatica dell’istituto dell’avvalimento nelle gare pubbliche, ricondotto anche di recente dalla Adunanza plenaria (sent. n. 13 del 2020) ai c.d. contratti d’impresa.
In effetti anche le negoziazioni private conoscono tali tipi di collaborazione tra imprese, che hanno lo stesso (o comunque simile) risultato economico a quello che si realizza con l’avvalimento, solamente che per esse si fa ricorso ad istituti e meccanismi propri di quell’ordinamento (noleggio, affitto, consorzio, gruppo societario, subappalto, cessione di ramo d’azienda e così via).
In realtà sia gli strumenti civilistici sia l’avvalimento sono destinati ad amplificare l’effetto c. d. reale proprio del contratto di società, ossia la creazione di una struttura economica che vive oltre il contratto che l’ha generata. Sicché, l’avvalimento serve “ad integrare una organizzazione aziendale realmente esistente ed operante nel segmento di mercato proprio dell’appalto posto a gara, ma che, di certo, non consente di creare un concorrente virtuale costituito solo da una segreteria di coordinamento delle attività altrui, né di partecipare alla competizione ad un operatore con vocazione statutaria ed aziendale completamente estranea rispetto alla tipologia di appalto da aggiudicare” (Cons. Stato, sez. V, n. 1772 del 20 novembre 2013; negli stessi sensi sembra andare id., sez. III,. n. 3702 del 10 giugno 2020). Con la conseguenza che è stata ben presto avvertita l’esigenza di evitare il possibile fenomeno del c. d. “avvalificio”, in cui cioè potessero operare imprese che si limitassero ad utilizzare la capacità economica di altre imprese, nonché di rendere possibile il controllo su tutte quelle forme di avvalimento che si sono delineate a seguito dell’applicazione pratica dell’istituto, come quello frazionato, quello plurimo e incrociato nonché il c.d. avvalimento ‘sovrabbondante’, e infine per sanzionare le forme di avvalimento vietate, come quello c.d. ‘a cascata’ (Adunanza Plenaria n. 13 del 2020, cit.).
Nel delineato quadro normativo, sussistendo il rispetto delle condizioni cui la giurisprudenza del Consiglio di Stato subordina la legittimità del ricorso all’avvalimento dell’attestazione SOA e, per converso, non ricorrendo alcuna delle ipotesi, anche indirette, in cui l’avvalimento risulta vietato, l’obbligo, imposto all’ausiliata dal disciplinare di gara, espressamente a pena di esclusione, di produrre la propria attestazione SOA, quando questa vorrebbe avvalersi dell’attestazione SOA dell’ausiliaria, non solo è contraddittorio rispetto alla previsione dello stesso articolo 20 (il quale consente che «i concorrenti possono soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico e professionale richiesti nel disciplinare di gara, avvalendosi dell’attestazione SOA di altro soggetto»), ma si pone in contrasto con gli artt. 84 e 89, d.lgs. n. 50 del 2016, che non escludono la possibilità dell’avvalimento dell’attestazione SOA né, tantomeno, subordinano tale possibilità alla condizione di depositare in sede di gara l’attestazione SOA dell’impresa ausiliata in proprio: come ha ritenuto la sentenza n. 5834 del 23 agosto 2019 della Sezione V del Consiglio di Stato, una siffatta previsione si traduce in un vero e proprio divieto di applicare l’istituto dell’avvalimento mediante la previsione di un adempimento apparentemente formale che, in modo surrettizio ma certamente a pena di esclusione per il concorrente, ne comprime l’operatività senza alcuna idonea copertura normativa.
Ha aggiunto l’Alto Consesso che in un contesto normativo ormai mutato e volto a consentire la massima espansione all’avvalimento senza, però, sminuire l’affidabilità economica e tecnica delle imprese partecipanti alla gara, non si può dare seguito all’orientamento espresso dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 1772 del 27 marzo 2013, la quale ha inteso, peraltro, evitare gli effetti distorsivi del sistema, potenzialmente derivanti dall’ammissione dell’avvalimento della SOA in presenza di «mera sommatoria delle attestazioni SOA dell’impresa avvalente e dell’impresa ausiliaria, prescindendo dal fatto che ciascuna di esse sia autonomamente in possesso della qualificazione necessaria alla partecipazione alla gara»: nel ben diverso caso di specie, non è contestato che l’impresa ausiliaria sia in possesso dell’attestazione SOA richiesta per lo svolgimento dei lavori.
Neppure si può ritenere che la clausola in questione sia legittima (come sembra prospettare la sezione remittente), sulla base dell’art. 83, comma 8, primo periodo, d.lgs. n. 50 del 2016, laddove prevede che «le stazioni appaltanti indicano le condizioni di partecipazione richieste, che possono essere espresse come livelli minimi di capacità».
Infatti, rileva il principio di tassatività delle cause di esclusione, affermato dallo stesso art. 83, comma 8, sicché la discrezionalità, comunque non illimitata né insindacabile, della pubblica amministrazione nel disporre ulteriori limitazioni alla partecipazione, integranti speciali requisiti di capacità economico-finanziaria o tecnica che siano coerenti e proporzionati all’appalto, è potere ben diverso dalla facoltà, non ammessa dalla legge, di imporre adempimenti che in modo generalizzato ostacolino la partecipazione alla gara, come è avvenuto nel presente caso per l’avvalimento dell’attestazione SOA, senza adeguata copertura normativa e in violazione del principio della concorrenza (v., in questo senso, anche Cons. St., sez. V, 26 maggio 2015, n. 2627).
(2) La giurisprudenza, cui poi si è allineata anche la dottrina, il principio basilare su cui si è retta la teorica dell’atto amministrativo e dei conseguenti rapporti sostanziali e processuali -e che ha operato per decenni alla stregua di una norma positiva- è quello secondo cui lo stato naturale della fattispecie invalida è l’annullabilità. Sicché il sistema relativo all’invalidità si è incentrato sull’unico vizio principale, ossia l’illegittimità.
In questo sistema non ha trovato spazio la nullità, così come disciplinata dal codice civile a proposito dell’invalidità del contratto. La giurisprudenza più risalente riteneva che non può aversi nullità se legittimati a chiedere l’annullamento giudiziale o in autotutela sono solo i partecipanti al procedimento, se l’azione va proposta in brevi termini di decadenza, se il vizio non è rilevabile d’ufficio e se infine il provvedimento viziato è sanabile. Anche se –va ricordato- progressivamente sono state introdotte dalla legge ipotesi in cui la violazione di una norma imperativa è stata espressamente qualificata in termini di nullità e come tale riconosciuta in giurisprudenza (si pensi, per esempio, alle assunzioni disposte in violazione di divieti legislativi).
D’altro canto anche nei rapporti civilistici la fattispecie nulla produce effetti, nonostante se ne predicasse l’improduttività degli effetti, l’imprescrittibilità, l’impugnabilità da chiunque avesse interesse, la rilevabilità d’ufficio. Inoltre vi era la chiara consapevolezza che i termini nullità e annullabilità venivano usati dal legislatore in maniera non rigorosa e che fossero presenti nell’ordinamento casi di nullità relativa e casi di annullabilità assoluta. Gli esempi sono molti e noti: l’uso improprio del vocabolo “validità” nell’art. 1398 del codice civile, che invece contempla un chiaro caso di inefficacia, la conversione del negozio nullo in cui si producono gli effetti benché di una fattispecie negoziale altra con effetti diversi e più ridotti, l’usucapione e la pubblicità sanante, le nullità in materia di diritto di famiglia e di contratto di lavoro.
In coerenza con l’indicato sistema, incentrato sul binomio invalidità/annullabilità, è andata anche la l. 7 agosto 1990, n. 241 sul procedimento amministrativo sino a quando non è intervenuta la legge 11 febbraio 2005, n.15, che ha inserito, all’interno dell’originario impianto, l’intero capo IV bis, che all’art. 21-septies, intitolato «Nullità del provvedimento», stabilisce: «E’ nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge».
Alla disciplina sostanziale è seguita quella processuale, ossia quella contenuta nell’art. 31 c.p.a., intitolato «Azione avverso il silenzio e declaratoria di nullità», che, al comma 4, stabilisce: «La domanda volta all’accertamento delle nullità previste dalla legge si propone entro il termine di decadenza di 180 giorni. La nullità dell’atto può sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d’ufficio dal giudice. Le disposizioni del presente comma non si applicano alle nullità di cui all’art. 114, comma 4, lettera b), per le quali restano ferme le disposizioni del Titolo I del Libro IV». L’ultimo rimando si riferisce al procedimento relativo al giudizio di ottemperanza, dove nella lettera indicata si stabilisce: «Dichiara nulli gli eventuali atti in violazione o elusione del giudicato». Infine l’art. 133, che, elencando le materie rientranti nella giurisdizione esclusiva, al comma 1, lett. a), n. 5 vi include: «(la) nullità del provvedimento amministrativo adottato in violazione o elusione del giudicato».
Dalla normativa indicata si ricava che sono state circoscritte a quattro le ipotesi di nullità ammesse, che diventano le uniche, tranne l’azione dichiarativa e quella della nullità c. d. testuale, visto che la giurisprudenza amministrativa ha escluso che ci fosse spazio per la cosiddetta nullità virtuale o di protezione di cui all’articolo 1418, primo comma, del codice civile, in quanto essa avrebbe avuto l’effetto di minare la stabilità e la continuità dell’azione amministrativa.
Infatti la medesima sezione remittente, in una pronuncia intervenuta quando era appena entrato in vigore il codice del processo amministrativo e che non risulta superata, ha statuito che: «La norma, introdotta dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15, tra le varie opzioni possibili -ossia tra quella di inserire nel sistema della patologia dell’atto tutte le ipotesi di nullità (testuale strutturale e virtuale) previste dall’articolo 1418 del codice civile e quella di ritenere sufficiente la categoria dell’annullabilità per quanto riguarda i rapporti amministrativi- ha scelto la soluzione di compromesso, ossia quella di escludere la nullità per contrasto con norme imperative di legge, giudicando tale categoria particolarmente pericolosa rispetto alle esigenze di certezza e di stabilità dell’azione amministrativa. In altri termini, le cause di nullità debbono intendersi a numero chiuso, così come peraltro già ritenuto dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato ( Cons. Stato, VI, 13 giugno 2007, n. 3173; V 26 novembre 2008, n. 5845). Pertanto, le ipotesi astrattamente riconducibili alla nullità c. d. virtuale vanno ricondotte al vizio di violazione di legge, atteso che le norme riguardanti l’azione amministrativa, dato il loro carattere pubblicistico, sono sempre norme imperative e quindi non disponibili da parte dell’amministrazione.>>. (Cons. Stato, sez. V, n. 1498 del 15 marzo 2010).
Rispetto alla nullità civilistica le più visibili differenze sono costituite dal breve termine di decadenza per proporre l’azione di accertamento della nullità e il fatto che nella classica nullità strutturale (rectius: negoziale, attinente alla struttura), ossia quella che deriva dall’assenza degli elementi costitutivi dell’atto, manca una norma che espressamente indichi quali sono, contrariamente all’ipotesi contenuta nell’art. 1418, secondo comma, del codice civile, letto in correlazione con l’art. 1325 del medesimo codice.
Invece le ipotesi del difetto assoluto di attribuzione e del provvedimento adottato in violazione del giudicato sono proprie del diritto amministrativo e sconosciute dal diritto civile, dove il problema della violazione del giudicato non si pone, essendo sufficiente per fornire la tutela necessaria l’actio iudicati.
Infine, la ragione della previsione del termine di decadenza di 180 giorni, per la cui decorrenza vale quanto statuito dall’art. 41, comma 2, c.p.a., va rinvenuta nella necessità di dare certezza e stabilità ai rapporti amministrativi; ragione che è la stessa per cui, a proposito dell’azione di annullamento è previsto il breve termine di 60 giorni per impugnare, ridotto a 30 negli altri casi espressamente previsti dal codice, tra cui il caso in esame. Peraltro, anche il diritto civile conosce casi di nullità in cui la relativa azione deve essere proposta entro un termine di decadenza, basti pensare alla materia delle nullità matrimoniali, di cui all’articolo 117, comma 4, del codice civile.
Ai fini della presente decisione più che le differenze con la nullità civilistica vanno individuati i punti di contatto, poiché essi consentono di delineare una sorta di quadro unico del sistema delle nullità.
Va premesso che al momento in cui la nullità è stata espressamente inserita nella legge generale sul procedimento amministrativo, la giurisprudenza e la dottrina civilistica avevano già da tempo superato l’impostazione derivante dalla tradizione pandettistica e, analizzando le norme del codice civile così come applicate nel diritto vivente, avevano dovuto prendere atto che in materia di invalidità le teorizzazioni generali costituiscono una via metodologicamente non esaustiva. Tant’è che –come osservato negli studi più recenti- nella contrattualistica moderna vi è una continua interferenza tra regole di validità, riferite alla struttura originaria dell’atto, e regole di comportamento, attinenti al profilo funzionale e legate alla responsabilità delle parti.
Non a caso si è sempre più assottigliata la differenza tra nullità e annullabilità, a lungo ritenute categorie impermeabili e poi progressivamente sfumate in figure intermedie, quali, ad esempio, le invalidità rilevabili d’ufficio ma sanabili, ovvero sanabili ma non rilevabili d’ufficio. Cosicché è venuta meno anche la distinzione classica originariamente fondata tra rimedi dettati a tutela di interessi generali (nullità) e rimedi volti a proteggere uno solo dei contraenti (annullabilità). Pertanto, di fronte ad una norma che preveda che l’esito conseguente alla sua violazione determini la nullità non significa che la scelta del legislatore abbia fatto esclusivamente riferimento ad un interesse generale o pubblico, ma anche a interessi privati o di categorie di soggetti qualificati. In altri termini la norma presuppone una combinazione di criteri diversi alla luce dei quali il giudice deve valutare, caso per caso, la compatibilità tra le specifiche clausole del contratto e gli interessi o i valori che l’ordinamento intende garantire attraverso la norma imperativa.
La breve rassegna delle posizioni civilistiche intorno all’istituto della nullità si giustifica sia perché esso è nato in quell’ordinamento, sia perché consente di poterlo meglio collocare in un ordinamento, quello amministrativo, che ha funzionato senza mai avvertirne la mancanza.
La nullità dell’atto amministrativo -figura generale, assieme all’annullabilità, dell’invalidità e che può essere riguardata non solo come vizio, ma anche come azione, eccezione in senso tecnico e come sanzione- va analizzata nel contesto ordinamentale specifico, diverso da quello civile.
Essa opera in presenza di un provvedimento amministrativo, che viene emanato nell’ambito di un procedimento rigorosamente disciplinato e che costituisce la forma necessaria dell’azione tendenzialmente unilaterale, ancorché sempre più spesso partecipata, del potere amministrativo. Quest’ultimo si apre, prosegue e si chiude all’insegna del principio per cui l’amministrazione deve curare l’interesse pubblico datogli in attribuzione dalla legge in maniera da raggiungere il massimo risultato possibile con il minimo mezzo.
Il profilo dell’illegittimità del provvedimento, anche quando ridondi sul procedimento che lo contiene, rileva in maniera efficace solo in sede processuale, a meno che l’amministrazione non ritenga di aprire un procedimento di secondo grado di autotutela.
Pertanto la nullità emerge nel processo, che ha le sue regole. Quindi chi intenda farla valere deve necessariamente proporre l’azione di annullamento dell’atto emanato in esecuzione di un provvedimento che si assume nullo, mentre l’azione di accertamento è ammissibile solo nei pochi casi in cui il soggetto abbia interesse al mero accertamento e non al suo annullamento; ipotesi difficilmente riscontrabile quando l’amministrazione, proseguendo nel suo itinerario procedimentale, emani altri atti, che il primo presuppongano, i quali producono effetti sulla situazione sostanziale o procedimentale del soggetto inciso.
Nel complesso delineato contesto ordinamentale, l’Adunanza Plenaria ritiene che la clausola escludente – che si ponga in violazione dell’art. 83, comma 8, del ‘secondo codice’ sugli appalti pubblici – non si possa considerare annullabile (e dunque efficace).
Valgano al riguardo le considerazioni che seguono.
Ancor prima dell’entrata in vigore del ‘primo codice’ dei contratti pubblici (d.lg. n. 163 del 2006), per la tradizionale giurisprudenza amministrativa (Adunanza Plenaria, sentenza n. 1 del 2003) l’impresa potenzialmente lesa da una clausola escludente aveva l’onere di proporre subito un ricorso giurisdizionale, sicché si doveva considerare tardiva la sua impugnazione unitamente all’esclusione, se proposta dopo la scadenza del termine di impugnazione del bando.
Tale giurisprudenza è stata ribadita nel vigore del testo originario dell’art. 46 del ‘primo codice’ sui contratti pubblici, finché il decreto legge n. 70 del 2011 ha modificato tale art. 46, introducendo il principio della ‘tassatività delle cause di esclusione’ e disponendo al comma 1-bis che ‘sono comunque nulle’ le ‘clausole escludenti’ che violano tale principio.
Le finalità di tale riforma sono volte a imporre alla stazione appaltante di emanare gli ulteriori atti del procedimento senza attribuire rilievo alla clausola escludente contra legem, nonché a consentire la piena tutela giurisdizionale – senza preclusioni – quando poi sia emanato l’atto di esclusione.
Sul significato di tale nullità si è pronunciata l’Adunanza Plenaria con la sentenza n. 9 del 2014, per la quale “la sanzione della nullità… è riferita letteralmente alle singole clausole della legge di gara esorbitanti dai casi tipici; si dovrà fare applicazione, pertanto, dei principi in tema di nullità parziale e segnatamente dell’art. 1419, comma 2, c.c. (vitiatur sed non vitiat”).
Questa sentenza ha aggiunto che “la nullità di tali clausole incide sul regime dei termini di impugnazione …, atteso che la domanda di nullità si propone nel termine di decadenza di centottanta giorni e la nullità può sempre essere eccepita dalla parte resistente ovvero rilevata dal giudice d’ufficio’, e che la clausola escludente nulla è ‘priva di efficacia e dunque disapplicabile da parte della stessa stazione appaltante ovvero da parte del giudice”.
L’art. 83, comma 9, del vigente codice degli appalti (d.lg. n. 50 del 2016) ha confermato il principio di tassatività delle cause di esclusione e ha ribadito che ‘sono comunque nulle’ le clausole escludenti in contrasto con tale principio.
Ritiene l’Adunanza Plenaria che la nullità della clausola escludente contra legem, ora prevista dall’art. 83, comma 9, del codice, vada intesa anch’essa come nullità in senso tecnico (con la conseguente improduttività dei suoi effetti), similmente a quanto è stato deciso per la corrispondente disposizione del novellato art. 46 del ‘primo codice’. In altri termini, la clausola è nulla, ma tale nullità, se da un lato non si estende al provvedimento nel suo complesso (vitiatur sed non vitiat), d’altro canto impedisce all’amministrazione di porre in essere atti ulteriori che si fondino su quella clausola, rendendoli altrimenti illegittimi e quindi, attesa l’autoritatività di tali atti applicativi, annullabili secondo le regole ordinarie.
Ritenere che la nullità sancita dal comma 8, ultima parte, dell’articolo 83 vada intesa come annullabilità si porrebbe in contrasto con la scelta del legislatore di qualificare come nulla la clausola escludente contra legem, e dunque non solo con il tenore testuale della legge, cui occorre attribuire primario rilievo in sede ermeneutica, ma anche con la sua composita ratio, volta a individuare un equilibrio tra radicale invalidità della clausola per contrasto con norma imperativa, ordinaria autoritatività dei provvedimenti amministrativi e interesse del ricorrente a far valere l’invalidità, in termini di nullità, quando essa si traduca in un provvedimento applicativo (esclusione o aggiudicazione) lesivo in concreto della sua situazione soggettiva tutelata.
(3) Ha chiarito l’Alto Consenso che non si possono considerare applicabili l’art. 21-septies, l. n. 241 del 1990 e l’art. 31 c.p.a., i quali si riferiscono ai casi in cui un provvedimento sia nullo ed ‘integralmente’ improduttivo di effetti: la clausola escludente affetta da nullità, in base al principio vitiatur sed non vitiat già affermato dalla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 9 del 2014, non incide sulla natura autoritativa del bando di gara, quanto alle sue ulteriori determinazioni.
Il legislatore, nel prevedere la nullità della clausola in questione, ha disposto la sua inefficacia, tanto che – se anche il procedimento dura ben più dei sei mesi previsti dall’art. 31 c.p.a. per l’esercizio della azione di nullità – la stazione appaltante comunque non può attribuire ad essa rilievo perché ritenuta “inoppugnabile”.
I successivi atti del procedimento, inclusi quelli di esclusione e di aggiudicazione, pur basati sulla clausola nulla, conservano il loro carattere autoritativo e sono soggetti al termine di impugnazione previsto dall’art. 120 c.p.a., entro il quale si può chiedere l’annullamento dell’atto di esclusione (e degli atti successivi) per aver fatto illegittima applicazione della clausola escludente nulla.
L’art. 120 c.p.a. non prevede alcuna deroga al termine di decadenza di trenta giorni, che sussiste qualsiasi sia il vizio – più o meno grave – dell’atto impugnato. Né può farsi discendere, quanto meno nell’ordinamento amministrativo, la nullità di un atto applicativo di un precedente provvedimento solo parzialmente affetto da una nullità riferita a una sua specifica clausola inidonea a inficiare la validità di quel provvedimento nel suo complesso.
Non vi è dunque alcun onere, in conclusione, per le imprese partecipanti alla gara di impugnare (entro l’ordinario termine di decadenza) la clausola escludente nulla e quindi “inefficace” ex lege, ma vi è uno specifico onere di impugnare nei termini ordinari gli atti successivi che facciano applicazione (anche) della clausola nulla contenuta nell’atto precedente.
fonte: sito della Giustizia Amministrativa